In un periodo in cui le relazioni sociali avvengono attraverso i cosiddetti “social media” ovvero tramite messaggi, foto, chiamate vocali o video chiamate, il coronavirus sembra risvegliare il bisogno delle relazioni dirette, sembra ricordarci quanto sia faticoso vivere senza la libertà di poter scegliere di stringere una mano, dare un bacio, abbracciarsi, vedersi, stare con l’altro. La conseguenza immediata è rappresentata dal mondo emotivo che ognuno di noi si può trovare a sperimentare: tristezza, rabbia, nervosismo, frustrazione, paura, speranza….

Esistono diverse motivazioni che possono spingerci nel corso della vita a instaurare relazioni con gli altri: dal bisogno di accudimento e cura, alla voglia di conoscersi e trascorrere il tempo insieme, alla necessità di ottenere risposte, strumenti, perseguire obiettivi e scopi.

Se orientiamo il nostro sguardo verso la realtà delle strutture di lungodegenza per le persone anziane ci rendiamo conto di come la Relazione sia fondamentale per mettere in atto la cura centrata sulla Persona, quella cura inevitabilmente medica ma anche e soprattutto assistenziale, persona-specifica, unica proprio perché si costruisce sulle caratteristiche del singolo individuo, caratterizzata da un tempo e uno spazio in cui sentirsi in relazione. In questo contesto, dunque, la relazione diventa il veicolo per eccellenza attraverso il quale costruire un rapporto di fiducia che permette alla persona anziana di fidarsi e affidarsi, di essere agente attivo nel processo di cura e (ri)appropriarsi di un ruolo in una fase della vita dove spesso capita che siano gli altri a decidere al suo posto e magari senza neanche chiederne il parere.

Premesso ciò, gli eventi che si sono succeduti a partire dal febbraio di quest’anno e nei mesi successivi hanno inevitabilmente influenzato la modalità di relazionarsi: mascherine sul volto, camici, visiere, guanti, distanza di almeno un metro e divieto di accesso ai non addetti alle cure professionali degli anziani residenti. Chi veste il ruolo di osservatore esterno potrà magari trovare in questo articolo la possibilità di soffermarsi e riflettere sulle fatiche, le paure o i desideri e le speranze di chi si trova a vivere in prima persona questi cambienti in una struttura di lungodegenza: persone anziane con o senza decadimento cognitivo, caregiver familiari (nella maggior parte dei casi figli, nuore o nipoti) e caregiver professionali (operatori assistenziali, medici, infermieri, educatori, fisioterapisti, psicologi e operatori addetti alle relazioni con il pubblico).

Il vissuto degli operatori in RSA

Nel lavoro di questi mesi ho potuto raccogliere sensazioni, percezioni, emozioni di diversa natura e intensità.

L’impotenza, la frustrazione di chi assiste vissute nei confronti di un virus che non permette di stare nella quotidianità del fare ma che sconvolge protocolli spesso rassicuranti quando ci si deve rapportare con una patologia, e la rabbia espresse a volte con parole, a volte con lacrime, a volte con un tono di voce più alto nei confronti di un collega.

La paura di ammalarsi e contagiare la persona anziana verso la quale si rivolgono le cure e/o chi aspetta a casa (marito, moglie, figli, genitori…).

Le difficoltà di attenzione e concentrazione una volta rientrati al domicilio, pensieri ricorrenti, problemi nell’addormentarsi o nel mantenere il sonno, sbalzi d’umore…e l’attesa. L’attesa dell’esito di un tampone…l’attesa che arrivi la comunicazione di un qualcosa di triste o temuto…

E il corpo? Il corpo “accusa il colpo” per dirlo con Van der Kolk, psichiatra olandese che si occupa da anni di stress post traumatico. Avrete visto le immagini che sono apparse sui giornali in questi mesi che raffigurano infermieri, medici e operatori sanitari con i segni delle mascherine sul volto o che dormono davanti allo schermo di un computer in ospedale. Riporto di seguito una parte di un discorso avvenuto giorni fa, nel corso di un colloquio con una collega poco dopo un turno lungo di lavoro: “…sto male in questa situazione, sento di non poter fare tutto quello che vorrei…Li vedo lì e penso come poterli aiutare..entro in una stanza e mentre sistemo la camera e le cose nell’armadio dico alla signora R: sono qui, mi sente? Sistemiamo le sue cose così sono bene in ordine. Ad un certo punto mi avvicino alla signora R, lei muove la mano verso di me e mi dice: tu..tu sei stanca, devi riposarti un po’..Lei stava per morire e si preoccupava per me…”.

Relazione e comunicazione in RSA ai tempi del coronavirus

E la relazione? La relazione mantiene saldi i piedi a terra, sempre presente ma trasformata a causa dell’impossibilità di accedere a tutto il repertorio della comunicazione non verbale soprattutto quando la persona anziana che si ha davanti non sente bene (ipoacusia), ha difficoltà linguistiche (afasia) o ha un decadimento cognitivo (demenza): non si può toccare per rassicurare, non si vede la bocca che può permettere di condividere, stare nelle emozioni e sentirsi compresi.

Ma quindi? Come si può fare? Si mantiene il contatto visivo, si impara a comunicare con gli occhi oltre che con le parole e il tono della voce.

Questo è vero anche nel supporto all’operatore ma in questa sede mi limiterò ad accennarlo perché mi porterebbe a riflessioni solo in parte inerenti al tema centrale di questo articolo.

Insieme alla relazioni tra la persona anziana e gli operatori e tra gli operatori stessi, si assiste ad un cambiamento nella relazione con il familiare, in gran parte determinato dal divieto di accedere alla struttura per preservare la salute di chi vi risiede all’interno spesso caratterizzata dalla presenza simultanea di patologie differenti (comorbidità) che espongono la persona stessa ad un maggiore rischio di vita qualora dovesse essere affetta da coronavirus.

Anche in virtù delle notizie che si susseguono nei telegiornali locali e nazionali di ciò che sarebbe avvenuto in alcune R.S.A., dei numerosi decessi e contagi, delle morti silenziose,ecc…, i familiari chiamano spaventati e preoccupati, più che sentire vogliono VEDERE i loro cari. Vogliono assicurarsi che quello che sentono narrare dai giornalisti in televisione sia diverso e lontano da quello che succede nella struttura in cui risiede il proprio familiare. Da una parte si forniscono informazioni chiare relative alla salute psico-fisica dell’assistito, dall’altro si accoglie la richiesta implicita di rassicurazione provando a normalizzare le emozioni vissute e trovando un punto di incontro tra i bisogni di chi è dall’altra parte del telefono, le capacità e le voglie della persona anziana e le possibilità organizzative. Ci si trova in una situazione in cui bisogna fare i conti con le risorse interne ed esterne alle persone, inutile fare promesse che non si possono mantenere, importante essere flessibili ma in maniera coerente. C’è chi chiede di portare i saluti alla mamma, chi vuole chiamare ma senza il video, chi vuole fare videochiamate tutti i giorni, chi quotidianamente si presenta fuori dalla casa di riposo nel tentativo di ottenere il permesso di entrare a trovare il padre, chi domanda di poter vedere il proprio caro in fin di vita per poterlo accompagnare e salutare un’ultima volta.

Allo stesso modo, dall’altra parte c’è la persona anziana che ha voglia di parlare al telefono con il figlio, chi non vuole, chi rimane triste e si chiude dopo aver scambiato qualche parola, chi sta bene così anzi addirittura lo preferisce.

Il valore della rete di sostegno in RSA: operatori, famiglia e persona anziana

Proprio in questi momenti diventa prezioso il ruolo del caregiver professionale (oss, asa, educatore, medico, infermiere, psicologo, fisioterapista, coordinatore di servizi e persone, direzione sanitaria, amministrativa e generale) nel mettere in atto una relazione di cura in cui la persona anziana è al centro, in cui la presa in carico tra figure professionali diverse, e con il familiare al di fuori della struttura, diventa la vera rete per il supporto clinico e psicologico e per allontanare la possibilità di percepirsi soli.

Partendo proprio da questo aspetto, la consapevolezza dei diversi mondi emotivi che ogni persona può sperimentare e il potere del sentirsi in relazione diventano il motore per attivare nuovi spazi e servizi in cui RI-trovarsi. Ecco allora che la tecnologia entra in casa di riposo riscoprendo un ruolo diverso e nuovo: le videochiamate diventano un mezzo per stare con il proprio caro, per sentirsi sicuri nelle relazioni anche a distanza. Ti vedo, ci sono, ci sei.

L’operatore accompagna nell’incontro, sia attraverso un’organizzazione pratica (foglio alla mano) degli orari delle chiamate, sia attraverso il gesto di proporre il telefono alla persona anziana e mettere in interazione le due parti, mediare e vivere forti emozioni che emergono nello stare tra la relazione persona anziana-familiare. L’educatrice che ha seguito il progetto videochiamate in uno struttura sul territorio milanese riporta un’esperienza positiva: “le persone ti danno il permesso di entrare in un pezzo privato delle loro vite. Si vede la felicità dei parenti nel vedere i propri cari stare bene così come la fragilità e le insicurezze che possono nascere dalla lontananza fisica. Offre uno sguardo diverso delle persone, arricchente”.

Tuttavia, arrivati a questo punto il lettore potrà immaginare che non sempre le chiamate hanno un contenuto positivo e di speranza, soprattutto se e quando il covid19 arriva in struttura.

All’interno di tutto, e tra le varie cose, lo psicologo può aiutare a stare nel qui ed ora della situazione, a dare uno sguardo più ampio alle emozioni vissute dalla triade operatore-persona anziana-familiare, a fare i conti con un lutto che può diventare “difficile” individuando insieme una ritualità e una modalità per favorire la narrazione personale di ciò che si sta vivendo o che si è vissuto, ad individuare le risorse e accogliere le fatiche e, perché no, a fornire delle strategie per riconoscere e gestire l’ansia e lo stress.

Dott.ssa Laura Ceppi, psicologa cognitiva